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Scuola: immissioni in ruolo: è bluff? (VIDEO)

A circa un mese dalla riapertura delle scuole, le immissioni in ruolo di nuovi docenti annunciate dal governo rischiano di rivelarsi un mezzo bluff e di essere caratterizzati da enormi difficoltà. Il buongiorno si è visto a partire dalla Campania, prima regione italiana ad aver concluso le operazioni annuali di immissione in ruolo con una valanga di docenti precari in arrivo e che dal ministero dell’Istruzione ha ricevuto l’autorizzazione per un contingente di 2.904 posti per ogni ordine e grado. Ad operazioni ultimate, però, non è stato possibile assegnare ben 900 posti per un motivo che era facilmente intuibile: la mancanza di docenti vincitori di concorso nelle graduatorie di merito. Tra le classi di concorso maggiormente in difficoltà ci sono educazione musicale, strumento musicale, lingue, laboratorio e tecnologie. Non solo: ai 900 posti rimasti liberi si devono aggiungere i 650 docenti di sostegno mancanti e le 400 cattedre lasciate vacanti da quei professori che sono diventati presidi, senza contare le supplenze per congedi, malattie e maternità, per le quali partiranno altre 1.500 richieste per le graduatorie d’istituto. Insomma, in Campania al momento mancherebbero circa 3.500 docenti, e dal primo settembre la regione dovrebbe appellarsi ad un vero esercito di supplenti. C’è da tremare, in attesa dei numeri delle altre regioni. Ed i motivi ci preoccupazione aumentano esponenzialmente se si tiene conto che la crisi di governo mette a rischio il cosiddetto decreto ‘salva intese’ che favorisce la stabilizzazione dei precari nelle scuole secondarie. Proprio pochi giorni fa, Angelo Panebianco ha passato in rassegna con lucidità i mali della scuola italiana, ma un approccio analitico rischia di far perdere di vista che non si tratta di fenomeni fra loro indipendenti, o casualmente concomitanti, ma piuttosto degli effetti di un numero limitato di cause di sistema, che in sostanza si possono ricondurre a due: la formazione iniziale ed il reclutamento degli insegnanti, e l’approccio spregiudicato della politica, di tutta la politica, alla questione scuola. L’Italia è infatti l’unico paese che ha mai avuto un percorso specifico di formazione per i futuri insegnanti: si mandava in cattedra chiunque, salvo regolarizzazione successiva, e nella scuola di tutti non poteva bastare. Ci sono voluti 30 anni perché il problema venisse affrontato. Inoltre, le scuole di specializzazione sono state travolte dalla pressione degli innumerevoli precari che, avendo svolto supplenze più o meno lunghe, rivendicavano una sistemazione. Ogni volta la soluzione è stata la stessa: si azzerava il modello precedente, a volte mai messo alla prova, se ne inventava uno nuovo e si sistemavano per l’ultima volta quelli che avevano comunque insegnato, col risultato che a sedere in aula c’era solo una percentuale ridotta di chi aveva ricevuto una formazione strutturata. Il problema va ricercato nell’assenza di percorsi dedicati unicamente alla preparazione dell’insegnamento: per diventare medici non ci si laurea in chimica, poi in fisica, poi in anatomia, ma si segue un percorso che integra le diverse conoscenze, così come per architetti, avvocati, ingegneri. E poi, la scelta di diventare insegnante non è un punto di approdo primario, ma un ripiego. Pur mal pagato, è l’unico profilo lavorativo per laureati disponibile a sufficienza. E nel quale, per giunta, non si deve rendere conto dei risultati.

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